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La psicoanalisi interprete del coronavirus

La psicoanalisi interprete del tempo presente
a cura del Dott. Giuseppe A. Messina

“Presi nel vortice di questo tempo di guerra, privi di informazioni obiettive, senza la possibilità di considerare con distacco i grandi mutamenti che si sono compiuti o si stanno compiendo, o di prevenire l’avvenire che sta maturando, noi stessi non riusciamo a renderci conto del vero significato delle impressioni che urgono su di noi, e del valore dei giudizi che siamo indotti a pronunciare.”

(Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, 1915, p. 123)

Uno sguardo d’insieme

In questi giorni così difficili per ognuno di noi, in cui la libertà di movimento è notevolmente limitata e le istituzioni si appellano al senso di responsabilità del singolo per il bene della collettività, ho avvertito un’emozione di grande confusione. Questa confusione mi sembra possa ben rispecchiare il senso di spaesamento improvviso a cui ognuno di noi è stato sottoposto. La quotidianità è stata interrotta, i ritmi delle nostre vite, i piccoli gesti rituali e regolari, la prevedibilità dell’istante successivo a quello che viviamo è stata messa in crisi. Il susseguirsi frenetico dei decreti ministeriali, giorno dopo giorno, hanno innalzato drasticamente il nostro livello di allarme di fronte ad una minaccia invisibile. In questi momenti così concitati non siamo riusciti a fare appello alle nostre capacità di pensiero, allo sguardo critico, alla competenza tipicamente umana di problematizzare i fenomeni con il fine di osservarli e capirli. Gli eventi hanno corso più velocemente della nostra capacità di pensarli e ci siamo ritrovati con le sole emozioni grezze, forti e nette: confusione, rabbia, tristezza, paura, angoscia. Queste emozioni, private della mediazione del pensiero, hanno portato ad assaltare treni in fuga verso casa, ad assaltare supermercati alla ricerca di cibo, a radunarsi in parchi pubblici per godersi un po’ di sole. Questi atteggiamenti, se subiscono solo condanna e giudizio, seppur condivisibili, corrono il rischio di non essere compresi nella loro profonda natura affettiva della vita psichica. Come possiamo soltanto giudicare chi ha avuto paura di non poter tornare dai propri affetti? Come possiamo solo rimproverare chi ha temuto che il cibo non ci fosse più per tutti? Come possiamo esclusivamente condannare chi, alla ricerca di serenità, si è diretto nei parchi pubblici per godersi il sole assieme ai propri cari? Certo, la responsabilità civile ci porta a condannare tutto questo e tuttavia i giudizi categorici ed affrettati, allo stesso modo delle emozioni grezze, arrestano il pensiero e lo paralizzano, non consentendoci di interrogarci oltre. Il giudizio ferma l’interrogativo. La ragione umana ci spinge a capire cosa muove le persone in questa direzione e questa ricerca credo ci condurrà a lidi che pensavamo dimenticati e sconosciuti.

Una realtà quotidianamente negata
La scelta di iniziare questo lavoro con una citazione tratta da Considerazioni attuali sulla guerra e la morte di Freud la devo a due ragioni, la prima è l’analogia di questo tempo che stiamo vivendo con un tempo di guerra, la seconda è la necessità di un ancoraggio solido nel mare in tempesta che stiamo attraversando. Questo sforzo riflessivo ha l’intento di fornire un contributo di pensiero in un momento in cui il pensiero è sotto attacco e la nostra capacità di usarlo fortemente limitata. Perché la guerra? L’analogia con la guerra rispetto a quello che stiamo vivendo potrebbe di certo indispettire chi la guerra l’ha vissuta o la sta vivendo davvero; bombardamenti, razionamenti di cibo, controlli militari dei civili e processi sommari, non stiamo vivendo questo e tuttavia c’è qualcosa di molto profondo che mi sembra possa accomunare questo momento storico a una guerra. Il coronavirus ricorda all’essere umano la cosa che più si sforza di arginare, di dimenticare, di rimandare, di delegare ad altri, di negare per sé stesso: la morte. La morte, nonostante razionalmente ognuno di noi sia pronto a riconoscerla come fatto ineluttabile, segue tutt’altro destino nella vita psichica, essa è negata. Saremmo in grado di vivere e sopportare la vita se sapessimo che abbiamo una certa probabilità di contrarre malattie mortali, di essere coinvolti in incidenti stradali, di subire calamità naturali, di essere, in una parola, al termine? L’apparato psichico ben si difende, fin dalla notte dei tempi, trattando la morte con grande ambivalenza emotiva. La morte rappresenta il più grande e potente limite di fronte al quale l’essere umano assume un atteggiamento estremamente ambivalente: da una parte la morte è riconosciuta come un fatto, fatto però da attribuire agli altri estranei, vale a dire che quando la morte sopraggiunge per altri esseri umani lontani non ci tocca, è cronaca; dall’altra parte è negata in quanto fine della propria vita. In tal senso si presenta un caso particolare, a ognuno di noi purtroppo noto, in cui questa ambivalenza è messa alle strette, in cui questa operazione psichica mostra la sua precaria tenuta: la morte di un nostro caro affetto. Quando una persona amata muore siamo di fronte all’impossibilità di assumere una delle posizioni ambivalenti descritte, siamo costretti a fare i conti con la morte come possibilità concreta e per un attimo possiamo quasi estendere questo pensiero al fatto che accadrà anche a noi. Il coronavirus ha ricordato a tutti questa verità quotidianamente negata. Freud ci ricorda che “In verità è impossibile raffigurarci la nostra stessa morte, e ogni volta che cerchiamo di farlo possiamo costatare che in effetti continuiamo ad essere ancora presenti come spettatori. Perciò la scuola psicoanalitica ha potuto anche affermare che non c’è nessuno che in fondo creda alla propria morte, o, detto in altre parole, che nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità” (Freud, 1915, p. 137).

Il crollo dell’onnipotenza
Homo Sapiens si è evoluto per selezione naturale, circa 130.000-200.000 anni fa a partire da numerosi ominidi del genere Homo. Ominidi che ha eliminato per la propria supremazia. L’uomo moderno, noi per intenderci, siamo il frutto di una storia naturale fatta di combattimenti, di guerre, di assassini di specie diverse e per noi minacciose. Ciò a ragione del fatto che quando la morte è altrui o ci procura un qualche vantaggio non abbiamo avuto mai problemi a considerarla come un fatto reale (Freud, 1915). Il progredire della cultura, la creazione di strumenti, la capacità dell’uomo di creare attivamente un mondo all’interno dell’ambiente terrestre e non, la tecnologia, ha fatto dell’uomo la forma di vita più potente sulla faccia della terra. L’uomo ha sviluppato così nel tempo un sentimento di onnipotenza rispetto alle altre specie naturali e al pianeta. Questa onnipotenza la riscontriamo quotidianamente nella primissima infanzia, i bambini molto piccoli non accettano che i loro desideri non siano soddisfatti, pretendono che siano immediatamente ascoltati e che qualcuno vi provveda, il più delle volte sono convinti che i loro pensieri siano magici, abbiano cioè l’onnipotenza di essere concretizzati (Freud, 1912-13). Gli adulti, nonostante abbiano ridimensionato la propria onnipotenza e il proprio pensiero magico attraverso il sopraggiungere evolutivo del principio di realtà (Freud, 1911), si trovano spesso a dover controllare questo sentimento interno di onnipotenza e magia di fronte a richieste della realtà che disapprovano o che vivono come frustranti (Freud, 1914). Basti pensare a tutte le volte in cui abbiamo considerato gli altri come intralci o qualcosa di ostacolante il nostro modo di procedere e intendere la vita. L’onnipotenza umana, psichicamente normale nella prima infanzia, è stata fomentata dalla società dell’ultimo secolo e più: pensiamo all’uso della tecnologia in qualunque campo della vita, i contatti in qualunque parte del mondo, la velocità delle comunicazioni, acquisti on-line e consegne in casa. Tutto sembrava confermare l’onnipotenza dell’umano sul mondo, fino a oggi. Ecco che esistono numerosi eventi climatici e/o ambientali che possono minacciare l’uomo: meteoriti, surriscaldamento/raffreddamento terrestre, eventi geologici catastrofici, terremoti, maremoti, vulcani. Questi eventi descritti sfuggono dal nostro controllo e pertanto alla nostra presunta onnipotenza. Tali eventi, mettendoci davanti alla nostra potenziale morte, sono trattati dall’apparato psichico alla stregua di qualunque altra cosa ci ponga a confronto con la morte, sono negati, relegati nell’alveo dell’improbabile se non dell’impossibile. Non ce ne occupiamo. Questa operazione psichica è precaria e destinata a non funzionare tanto più la realtà, con i suoi accadimenti, sancisce l’ovvietà negata della mortalità umana. Abbiamo avuto una prima prova della lotta tra la sentenza della realtà e la negazione umana sostenuta dall’onnipotenza con il problema ambientale e climatico. Se da una parte abbiamo assistito a chi, consapevolmente, allarma il mondo riguardo i danni fatti dall’uomo al clima, dall’altra parte abbiamo osservato chi, irresponsabilmente, nega che i cambiamenti siano in atto, relegando chi mostra la realtà tra i negativi. È quanto sta accadendo, con le dovute differenze, con il coronavirus. Abbiamo potuto osservare chi, fin da principio, facendo appello alle proprie risorse di pensiero, ha visto nel virus una minaccia per la vita, e chi, al contrario, regredendo a uno stadio onnipotente, ha negato la realtà. Forse ora è più comprensibile capire chi ha agito in modo irresponsabile, spinto da funzionamenti mentali primitivi, eppure così appartenenti a ognuno di noi. Ognuno di noi ha avuto paura, timore, sconforto, allarme e angoscia. La differenza è che c’è chi ha saputo, più o meno consapevolmente, pensare le emozioni per sintetizzare l’azione in comportamenti civili ed adeguati, e chi più o meno inconsapevolmente, ha denegato le emozioni, oscurato il pensiero, esitando così in comportamenti irresponsabili.

Riscoprire il legame
Questo virus sembra offrirci l’occasione di riscoprire quanto siamo legati gli uni agli altri, quanto gli altri siano importanti, quanto l’onnipotenza non esista nella realtà e soltanto l’unione degli intenti possa davvero aiutarci a sentirci più umani e vicini. Il virus, con la sua oscura minaccia di morte, sembra poterci ricordare la fragilità con cui siamo nati e quella in cui ci evolviamo, un delicato equilibrio da rispettare e sostenere. Forse, l’esserci ricordati di essere mortali e in pericolo ci permetterà accoglienza verso chi fugge da guerre e miseria, verso chi, come noi, appartiene alla fragilità senza nazione dell’essere umano. L’azione livellante del virus, che non fa distinzione di sesso, nazionalità o colore della pelle, di stato sociale o professionale, è un potente antidoto contro tutte le forme di sopruso, più o meno esplicito cui assistiamo sempre più sgomenti. Un grande analista inglese, Donald Winnicott, per ricordare quanto l’essere umano non sopravviva se preso singolarmente, pronunciava queste parole, in modo provocatorio ma anche profondamente vero, durante una sessione della Società Psicoanalitica Britannica: “Ma un neonato, è qualcosa che non esiste!” (1952). Di fronte all’uditorio allarmato si affrettò ad aggiungere: “quando mi si mostra un neonato, mi si mostra certamente anche qualcuno che bada al bambino, o almeno una carrozzina con incollati addosso gli occhi e gli orecchi di qualcuno” (1952). Ecco, forse parafrasando Winnicott, possiamo dire che abbiamo davvero bisogno dell’altro, di qualcuno che ci guardi e ci ascolti, per ricordarci reciprocamente quanto siamo legati e quanto l’amore verso gli altri sia l’antidoto migliore all’individualismo, che lungi dall’appartenere solo agli odiati altri, appartiene anche a noi. La grande riscoperta dunque, non è solo della morte che sopraggiungerà, ma anche dell’onnipotenza che ci abita, dell’individualismo e di tutti quei funzionamenti primitivi della mente che sono pronti ad agire laddove il pensiero perde il senso dell’orientamento.
Vorrei concludere con una domanda che Freud pone a tutti noi, ieri come oggi.

“Non sarebbe preferibile restituire alla morte, nella realtà e nel nostro pensiero, il posto che le compete, dando un rilievo un po’ maggiore a quel nostro atteggiamento inconscio di fronte alla morte che ci siamo fino ad ora sforzati di reprimere con cura?”

(Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, 1915, p. 147)

Bibliografia
Freud, S. (1911). Precisazioni sui due principi dell'accadere psichico. In S. Freud, Opere Vol. 6. 1909-1912 - Casi clinici e altri scritti (p. 453-460). Boringhieri, 1974.

Freud, S. (1912-13). Totem e Tabù: alcune concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici. In S. Freud, Opere Vol. 7. 1912-1914 - Totem e tabù e altri scritti (p. 7-164). Boringhieri, 1975.

Freud, S. (1914). Introduzione al Narcisismo. In S. Freud, Opere Vol. 7. 1912-1914 - Totem e Tabù e altri scritti (p. 443-472). Bollati Boringhieri, 1975.

Freud, S. (1915). Considerazioni attuali sulla guerra e la morte. In S. Freud, Opere Vol. 8. 1915-1917 - Introduzione alla Psicoanalisi e altri scritti (p. 119-148). Boringhieri, 1976.

Winnicott, D. W. (1952). L'angoscia associata all'insicurezza. In D. W. Winnicott, Dalla Pediatria alla Psicoanalisi (p. 119-123). Psycho, 1975.